UNA SPERANZA INSPERATA
È tempo di scrittura della tesi, quegli ultimi giorni di inverno che sembrano già primavera. C’è il sole, fa quasi caldo. I pensieri per la testa sono tanti: il presente irto di ostacoli, il futuro incerto (e dopo la laurea che farò? Ma ‘sta morosa la troverò mai? E così via). Tutti assieme mi accompagnano mentre, come sempre, corro in bicicletta per il centro, tra casa mia e la Facoltà di Filosofia, ma questa volta con più ansia. Il mio relatore dovrebbe aver corretto il primo capitolo della tesi. C’ho messo l’anima per comporre un lavoro più che presentabile e interessante, almeno per le mie (alte) aspettative. A dir la verità mi sento molto soddisfatto, non vedo cosa potrebbe andare storto: il dubbio rimane sempre, ma provo a scacciarlo in coda ai pensieri. Entro nell’ufficio, mi accomodo sulla sedia di fronte alla scrivania cercando, col pelo dell’occhio, di interpretare lo sguardo del professore per scorgervi qualche anticipazione di quello che sta per dirmi. Ahimè gli occhi non dicono molto ma la bocca è stretta, quasi tirata e ne escono subito queste parole: «Così non ci siamo!». Ne segue un’ora infernale. Praticamente non ne ho fatta una giusta. Sola consolazione: il professore non ha affatto considerato la sostanza del mio lavoro (su cui pare non aver nulla da obbiettare), solo trova intollerabile la forma in cui l’ho scritto, le leggerezze in nota, in bibliografa… Ne esco devastato.
Col senno di poi oggi credo che non avrei dovuto prenderla così male: in fin dei conti i consigli che mi diede furono ottimi per il prosieguo del lavoro. Ma la botta fu dura. D’altra parte più si gonfia il proprio ego più il botto sarà forte quando qualcuno si prenderà la briga di bucherellarlo per bene.
Me ne torno a casa, pedalando in modo decisamente mogio. Passo le Piazze ma ecco che sulla destra vedo una chiesa con il portone aperto: la Chiesa di S. Canziano, scoprii in seguito. Sembrava dirmi: «Entra!». Ci ero passato tante volte davanti, in entrambi i sensi di marcia, senza neanche accorgermi che ci fosse, ma quella volta aveva catturato decisamente la mia attenzione.
Lego la bicicletta appena fuori dall’ingresso, entro, mi segno con l’acqua santa e do uno sguardo alla bellissima architettura che mi accoglie, ma subito il mio sguardo si indirizza al tabernacolo. Di seguito le mie gambe si inginocchiano a un banco qualsiasi, le braccia si distendono avvinghiate per le mani strette forti tra loro. Non ricordo precisamente cosa pregai. Certamente chiesi aiuto al Signore. Riconobbi la mia arroganza, i miei limiti. Credo di avergli detto che senza di Lui non sarei andato da nessuna parte. Sudavo forsennatamente, col capo curvo verso il pavimento, incassato tra le spalle e gli avambracci. Uscii da quella Chiesa fisicamente ancora più stravolto. Mi sembrava di aver corso una maratona, le ginocchia dolevano alquanto, ma nell’animo qualcosa era cambiato in meglio: ora speravo.
Da allora, al termine delle intense giornate di scrittura, tornai spesso in quella chiesa trovandovi sempre conforto: pareva messa lì apposta per me. Tutt’oggi non riesco a passarci davanti senza salutare di cuore il suo illustre Ospite, come si salutano quegli amici con cui si sono vissuti tanti momenti difficili superandoli assieme. Passando davanti a quel portone di legno, fermo i pensieri e con sguardo di intesa faccio sul mio corpo il segno del mio Amico. So che Lui è lì, appoggiato allo stipite, che mi ammicca di rimando.